Cantante, insegnante di canto, autrice di canzoni, poesie e racconti. Diplomatasi nel 2002 in Scrittura Drammaturgica presso la Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano, accede al corso di Canto Jazz della Civica Scuola di Musica Jazz di Milano lo stesso anno e si diploma nel 2006. Tra il 2006 e il 2009 frequenta il corso di Laurea in Jazz presso il Conservatorio verdi di milano dove si laurea il 1° Marzo 2010.
giovedì 21 gennaio 2021
Senso di colpa, comfort zone e coazione a ripetere.
Il senso di colpa, molto spesso, è una sorta di delirio di onnipotenza. Ci si sente in colpa per cose che sono al di fuori dalla propria portata. Cose che non avevamo nessun potere di cambiare ed evitare: la morte di una persona cara, di un amico, di un animaletto ammalato e anziano. Oppure per cose che non dipendono da noi, come le azioni e le reazioni degli altri. Ognuno sceglie per sé. Ma questo sentimento angusto, il senso di colpa, dipende in gran parte dall'incapacità di accettare le cose che non ci piacciono. Spesso le cose vanno in una maniera che non ci garba e non ci possiamo fare niente e abbiamo bisogno di un colpevole. C'è inoltre un aspetto di pensiero infantile: i bambini, per esempio, si sentono in colpa quando i genitori si separano o, peggio, quando i genitori li trattano male o non li sanno amare. Pensano che dipenda da loro, da come sono fatti, da quello che si meritano. Non dai limiti degli adulti (che spesso tanto adulti non sono).
Le persone sbagliano, è inutile incistarcisi. Ma negarne l'errore non è il modo giusto di rimettere in pari i conti. Perché per farlo, ci si addossa la colpa. E ricreare percorsi simili a quelli vissuti con queste persone, sperando e cercando di far andare le cose diversamente, serve solo a costruire un piccolo inferno personale.
Andare altrove, in altri luoghi della mente, in altri modi di interagire è l'unica via di salvezza. Solo che spesso non ci riusciamo perché non riusciamo a fare a meno di restare nella “comfort zone”.
Ma cosa ha di confortevole questa zona? Solo il fatto che non presenta sorprese. O meglio, in realtà riusciamo a sorprenderci del fatto che facendo le stesse cose, otteniamo sempre gli stessi risultati, ma è una finta con noi stessi. Alla fin fine vogliamo non rischiare di vivere qualcosa di diverso.
Ma il vero comfort sta da un'altra parte.
Il comfort è stare bene con se stessi, con gli altri, scoprire cose nuove, potersi esprimere, creare o costruire qualcosa – attività, dipinti, racconti, musica, case, mobili, alleanze, lavori, vicinanze, spazi di concentrazione e meditazione, spazi di condivisione. E quando sei libero queste cose non sono dei rifugi: sono dei luoghi di espressione, ascolto, interazione e di vita.
L'incertezza può essere massacrante, quindi, molti, trovano confortante rifare sempre le stesse cose, per quanto grigie e logore possano essere.
Ma se vuoi i colori, stanno da un'altra parte: basta concedersi qualche rischio, qualche variazione, qualche novità.
La comfort zone in realtà è una zona angusta e a volte estremamente spiacevole e dolorosa.
Anche la comfort zone implica una non accettazione. Non si accetta che le cose possano cambiare e possano essere diverse da come ce le aspettiamo – sia le cose positive, che, molto spesso, quelle negative. Perché molti patiti della comfort zone, anche se non se ne vogliono rendere conto, si aspettano solo cose negative, non evolutive, non costruttive. Non buone e non nutrienti.
Che ci piaccia o no, le cose cambiano. Che ci piaccia o no, cresciamo (fisicamente) e poi invecchiamo. E se ci rifiutiamo di cambiare anche noi, dentro, ne paghiamo il prezzo.
Dall'altro lato della scena, abbiamo la mancanza di responsabilità, che per certi versi è il contrario del senso di colpa, ma probabilmente nasce da un senso di colpa ancora più enorme, talmente grande e insostenibile (talmente simile al sentirsi totalmente sbagliati, tanto da non meritarsi nulla, neanche di esistere) e talmente straziante da portare le persone a negare, al contrario qualsiasi responsabilità. E come se non accettassimo la nostra parte nel determinare e influenzare il presente e il futuro. Cioè il piccolo potere che tutti noi, invece, abbiamo.
È come essere vittime di una sorta di ipnosi interiorizzata. Come se qualcuno ti avesse detto: “Io non mi prenderò cura di te, come e quanto ne avresti bisogno. E nessun altro deve farlo.”
E si obbedisce a questo ordine ipnotico (la comunicazione in famiglia è ipnotica – come scriveva Laing) e lo eseguiamo attraverso le azioni dettate dai sensi di colpa, dal vincolo alla comfort zone e dal non prenderci responsabilità.
Bisogna prendere per mano, abbracciare, prendere in braccio le nostre parti piccole (il nostro bambino interiore) per ascoltarle, confortarle e cullarle. Questo crea una sensazione di benessere e di potere molto profondo, dolce e caldo.
Alla fin fine il vero scopo della vita è la crescita, umana e spirituale. E se non ti hanno aiutato a farlo i tuoi genitori... lo devi fare tu.
Crescere è trovare la forza di cambiare ciò che possiamo cambiare e accettare quello che non possiamo cambiare, apprendendo la saggezza necessaria per cogliere la differenza.
Noi possiamo cambiare noi stessi e non quello che sta attorno, se non dando l'esempio – chi vuole lo coglierà, chi non vuole continuerà a ripetere gli stessi percorsi e gli stessi errori, perché sta a lui scegliere.
Crescere è diventare liberi di non ripetere uno schema, uscire da una coazione di interazioni e da un certo modo di sentire, rassicurante perché conosciuto, ma angusto per gli effetti che ha: ti lascia sempre nello stesso angoletto esistenziale. L'angolo può apparire più o meno ampio. Ma un angoletto è sempre un angoletto, mentre là fuori c'è tutto un mondo di cui tu ti privi, fino a quando scegli l'angoletto, come fosse l'unica possibilità.
Un momento di restrizioni come questo, apparentemente, non sembra d'aiuto per uscire dagli angoletti. Però non si sa mai, le cose a volte vanno in maniera imprevedibile e a volte vanno molto meglio di quel che ci si aspetterebbe.
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